Quelli che non sono partiti!
Trovarli nel presepe non è poi così difficile. Basta distogliere lo sguardo dalle luci della capanna e non farsi distrarre troppo dal canto degli angeli. Lì non ci sono.
Non cercate nelle strade di Betlemme, dietro gli usci delle case o nelle osterie che hanno chiuso i battenti. Non scrutate nei cupi corridoi del palazzo di Erode o nelle torri di guardia della guarnigione dei soldati romani, e nemmeno tra i banchi della sinagoga, dove un vecchio rabbino mastica preghiere alla luce di un mozzicone di candela. Non sono neppure lì. Provate piuttosto a cercare lontano, dove c’è buio, dove c’è posto solo per il freddo e l’oscurità della notte. Hanno acceso un fuoco per scaldarsi e per farsi compagnia. I loro volti brillano per un istante alla luce della fiamma e poi spariscono all’improvviso, inghiottiti dalle tenebre e dal gelo. Hanno visto i loro compagni prendere in mano le lanterne e correre via, lasciando il gregge allo sbando, attratti – dicono – da un richiamo di voci celesti. Li hanno seguiti solo con lo sguardo; il loro corpo e il loro cuore sono rimasti immobili nella notte. Guardateli bene. Sono i pastori che non sono mai partiti.
Vedete. Uno di loro si è addormentato, avvolto in un mantello pesante, col cappello di lana calcato sul capo, a coprirgli metà del volto. Non si è accorto di nulla. Forse è talmente stanco, dopo giorni e giorni di lavoro duro e di stenti, da non avvertire più la forza di nessun richiamo, da non desiderare più nulla dalla vita, se non di essere lasciato in pace. Il canto degli angeli si è dissolto nella sua mente con la veloce leggerezza di un sogno. È rimasto soltanto un sonno duro e pesante, e non sarà certo lieve il risveglio, l’indomani. Le stesse pecore, lo stesso paesaggio, i medesimi compagni di viaggio inaffidabili e rissosi. Se ne andranno in fretta i ricordi confusi di quella notte di mistero, che presto passerà senza cambiare nulla, senza lasciare traccia.
Poco distante da lui si muove e si agita di continuo un altro pastore. A trattenerlo lontano dalla grotta non è stata la stanchezza, ma la paura. Guardatelo mentre gira le spalle al fuoco per scrutare inutilmente la notte. Ogni rumore lo insospettisce, ogni suono lo mette in ansia, ogni cambiamento lo disturba. È da tempo che vive così: preoccupato di perdere quel poco che ha, quelle quattro pecore a cui è talmente attaccato da restarne prigioniero.
È stato tentato di partire con gli altri, ma gli è mancato il coraggio. Hanno vinto ancora una volta l’indecisione, l’ansia per il futuro, l’angoscia di affrontare l’ignoto. È rimasto lì, accanto al fuoco, incatenato dai propri timori, pronto a rimpiangere – il giorno dopo – l’ennesima occasione perduta.
Diverso è il pensiero del più vecchio della compagnia, che riattizza con gesti lenti e misurati il fuoco che brilla nella notte. Lui ne ha viste tante, troppe. E ogni volta è stata una delusione. Ha perso il conto degli istanti in cui ci ha creduto, si è acceso di entusiasmo, è andato con gioia incontro alla vita per gustarne tutto il sapore.
Adesso non ce la fa più. Ha deciso di chiudere, di sbarrare le porte del cuore perché teme di restare nuovamente deluso, perché le speranze e i sogni della vita l’hanno sempre tradito. Si era fidato dell’amore, ed è stato ingannato; aveva invocato Dio, e il Signore non gli ha risposto; aveva coltivato sogni di bene, e ogni risveglio gli ha restituito soltanto il sapore amaro del fallimento e della sconfitta. Poco alla volta ha reso duro il cuore per non dover più soffrire. Ha guardato scettico gli amici in partenza per la grotta, ha chiuso gli occhi davanti allo splendore dell’angelo, ha tappato le orecchie per non udire i canti di gioia. «Non fidatevi – ha provato a dire – è una storia che conosco già, è soltanto un ultimo imbroglio». Adesso è fermo davanti a un fuoco che va spegnendosi, proprio come la sua vita, come il suo cuore che ha smarrito il calore di un tempo.
Ne resta ancora uno. E se l’abbiamo lasciato per ultimo è soltanto per il timore di andargli vicino. Perché non ci si accosta troppo facilmente a un uomo che piange. Al presepe ci sarebbe andato volentieri, ma non l’hanno voluto, non l’hanno aspettato, e si è ritrovato solo, incapace di affrontare la notte e il buio senza il lume di una lanterna, il calore di una fiaccola, la mano di un amico. La sua notte di Natale si consuma in un’oscura solitudine lavata dal pianto, accanto a ombre silenziose che non consolano, nel gelo di una speranza che si consuma e si spegne.
Un’antica leggenda racconta che nella notte di Natale a un certo punto tutti si sono addormentati. Gli angeli erano già volati via, i pastori si erano coricati vicino alla grotta, Maria e Giuseppe riposavano dopo le gioie e le fatiche di una giornata che sembrava non avere fine. Allora, proprio allora, il Bambino ha aperto gli occhi, e dal suo sguardo è partita come una striscia di luce sottile, che ha tagliato in due il buio della notte. Si dice che questa luce abbia illuminato i monti attorno a Betlemme per destare e consolare i pastori che non erano mai partiti, per toccare il cuore di chi aveva perduto la speranza, per asciugare le lacrime di chi piangeva, per dare coraggio a chi aveva paura, e forza a chi si sentiva sfinito. Si dice che questa luce torni, a volte, a visitare chi nella notte di Natale si sente disperso e distante.
Capita a tutti di scoprirsi lontani da Dio, ospiti scomodi e infelici di un triste presepe, nascosti negli anfratti delle nostre ribellioni, delle solitudini e delle sofferenze che ci chiudono il cuore. Come i pastori che non sono mai partiti vorremmo soltanto restare là dove siamo, nel mezzo delle nostre incertezze, al fondo della disperazione e della paura. Fin lì può arrivare la luce dello sguardo del Bambino. Da lì potremo ricominciare.
I sentimenti e le azioni che accompagnano quelli che non sono partiti
- La stanchezza: che può essere fisica (come oggi, penso a chi è ammalato o in isolamento a causa della pandemia) e spirituale, quando manca il “desiderio” (che hanno avuto i Magi!), quando prevale la sfiducia, lo scoramento e si vede tutto “nero” (mancano le stelle in cielo!).
- La paura: quando prevale l’ansia, il sospetto. Quando si preferisce “nascondere il talento”, non sfruttando i doni che Dio stesso ci ha lasciato. Prevale di conseguenza l’angoscia, l’indecisione e subentra il timore (nei confronti della vita e nei confronti di Dio).
- Il timore: consegue alla paura, ma è “giustificato” dalle delusioni avute, dai sogni e dalle speranze tradite. Non tutto dipende da noi, ma anche da persone o fatti circostanti: a noi la capacità di reagire, per non cadere nello scetticismo chiudendoci in noi stessi.
- Il pianto: come la stanchezza, è “fisica”, concreta, segno di un disagio interiore, morale o spirituale che sia. A volte il pianto avviene perché ci si sente soli, a causa di un rifiuto (è un fatto esperienziale) e spesso ci si sente abbandonati dagli altri (ma anche da Dio): viene meno la speranza.
Davanti a queste situazioni, che anche noi possiamo vivere nella nostra quotidianità, siamo invitati a reagire, a scuoterci, a “partire” di nuovo, per raggiungere colui che può ridare speranza, forza, coraggio, senso al nostro “soffrire”.
Così la presenza di Gesù bambino, il suo sguardo che emana la “luce sottile”, diventa motivo per noi di crederci ancora e di affrontare le stanchezze, le paure, i timori e i pianti della nostra vita presente, oggi condizionata dalla pandemia che, in un modo o nell’altro, “ci segna”…
Ma il segno più vero, autentico e incisivo, lo vogliamo ritrovare in Gesù, che desta e consola “i pastori che non erano mai partiti”, per toccare il cuore di chi aveva perduto la speranza, per asciugare le lacrime di chi piangeva, per dare coraggio a chi aveva paura, e forza a chi si sentiva sfinito.
Guardiamo alle nostre sofferenze, solitudini, ribellioni, disperazioni e paure, per affidarle a Lui, al semplice suo sguardo, perché trasformi tutti questi sentimenti di morte e di oscurità, in certezza di vita e di luce, per vedere nel modo più giusto anche questo tempo, che – comunque – fa parte del nostro cammino di fede: una fede provata, certo, ma pur sempre ancorata alla presenza di Gesù nella nostra vita, che mai ci abbandona!
L’esperienza di san Francesco
Possiamo trovare moltissime testimonianze di san Francesco di fronte alle prove (fisiche e spirituali) della vita. Lascio a voi solo due testimonianze come esempio. Entrambe descrivono Francesco che, verso la fine della sua vita, già sofferente, si affida a Dio rivolgendo a lui il proprio sguardo (“sollevò la faccia al cielo”, ricorda il biografo nella prima testimonianza) e parole di lode (attraverso il Cantico delle creature), certificando così che una fede provata può essere colma di “letizia” anche nelle prove e nelle sofferenze, perché abbandonata totalmente nelle mani del Creatore.
Oltre alle due testimonianze che lascio di seguito, vi invito a riprendere l’esperienza del “presepe di Greccio” (FF 468-471), per prepararsi ancor meglio al Natale ormai prossimo: che sia davvero “buon” per tutti, perché vissuto con la presenza di Gesù, che ridona “gioia e pace” alle nostre esistenze!
FF 1239: Dalla Leggenda maggiore di san Bonaventura
Durante il biennio che seguì alla impressione delle stimmate, egli, come una pietra destinata all’edificio della Gerusalemme celeste, era stato squadrato dai colpi della prova, per mezzo delle sue molte e tormentose infermità, e, come un materiale duttile, era stato ridotto all’ultima perfezione sotto il martello di numerose tribolazioni.
Nell’anno ventesimo della sua conversione, chiese che lo portassero a Santa Maria della Porziuncola, per rendere a Dio lo spirito della vita, là dove aveva ricevuto lo spirito della grazia.
Quando vi fu condotto, per dimostrare che, sul modello di Cristo-Verità, egli non aveva nulla in comune con il mondo, durante quella malattia così grave che pose fine a tutto il suo penare, si prostrò in fervore di spirito, tutto nudo sulla nuda terra: così, in quell’ora estrema nella quale il nemico poteva ancora scatenare la sua ira, avrebbe potuto lottare nudo con lui nudo.
Così disteso sulla terra, dopo aver deposto la veste di sacco, sollevò la faccia al cielo, secondo la sua abitudine totalmente intento a quella gloria celeste, mentre con la mano sinistra copriva la ferita del fianco destro, che non si vedesse.
E disse ai frati: ” Io ho fatto la mia parte; la vostra, Cristo ve la insegni “.
FF 1547: Dalla Compilazione di Assisi
[1656]Allora Francesco, sebbene disfatto dalle malattie, con grande fervore di spirito e raggiante di gioia profonda, lodò il Signore. Poi rispose al compagno: “Ebbene, se la morte è imminente, chiamatemi i fratelli Angelo e Leone, affinché mi cantino di sorella Morte”.
Vennero i due da Francesco e cantarono, in lacrime, il Cantico di frate Sole e delle altre creature del Signore, composto dal Santo durante la sua infermità, a lode del Signore e a consolazione dell’anima sua e degli altri. In questo Cantico, innanzi all’ultima strofa, egli inserì la lassa di sorella Morte, questa:
Laudato sie, mi Segnore,
per sora nostra morte corporale,
dalla quale null’omo vivente po’ scampare.
Guai a quilli ke morirà ne li peccati mortali!
Biati quilli ke trovarà ne li toi
sanctissime volontade
ke lla morte seconda no li farà male.
Santo Natale 2020.
Padre Giuseppe Dell’Orto – OFM Monza