Immagine: Natività di Betlemme e il Presepe di Greccio risalente al XV secolo ad opera di Maestro di Narni. Chiesa di San Luca, Greccio.
In cammino verso il Natale: Preghiamo con Francesco
(Sabbioncello, domenica 11 dicembre 2022 ore 15)
Commento a Il Presepe di Greccio (1Cel 84-87: FF 466-471)
Ci troviamo di fronte a un bel testo, costruito con grande abilità dal suo autore, Tommaso da Celano, il primo biografo di Francesco. All’inizio del suo racconto (nell’introduzione: FF 466-467) egli ricorda che «il desiderio dominante» di Francesco era di «osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo» (FF 466), inteso come «le parole e le opere di Gesù» (FF 466-467); «di imitare fedelmente […], con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo» (FF 466). Per questo li «meditava continuamente» (FF 467).
Ed è proprio da questa attenzione al Vangelo che nasce anche l’episodio del Natale di Greccio. Nasce dal desiderio di «vedere con gli occhi del corpo» (FF 468) quello che il Vangelo ci narra, e più esattamente la povertà, «i disagi in cui Gesù si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato» (ivi).
Quindi ciò che Francesco voleva vedere era la povertà del neonato Gesù, «la mancanza delle cose necessarie a un neonato». E la voleva vedere per imitarla (come dice appunto l’introduzione, che ci ha ricordato che il suo «desiderio dominante» era di «osservare il santo Vangelo»).
Questo ci ricorda che la povertà francescana non è principalmente un esercizio ascetico. Francesco vuol essere povero perché Gesù ha scelto di essere povero. Proprio perché Francesco per tutta la vita si è impegnato a vivere secondo l’esempio di Gesù Cristo, «si diede con grande amore alla ricerca della santa Povertà, desideroso di trovarla e deciso a farla sua» (Sacrum commercium sancti Francisci cum domina paupertate [uno dei più antichi scritti su Francesco] 4: FF 1962).
Però la povertà di Gesù non è semplicemente povertà di beni materiali. Francesco la coglie nella sua Incarnazione, nel fatto che Egli, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini», come dice la Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-7).
In pratica Francesco ha preso sul serio, molto sul serio quanto la Lettera ai Filippesi esige da tutti i cristiani, dai battezzati in Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8)
Ci può aiutare a comprendere la povertà radicale del Signore che Francesco vuole imitare e vivere una delle Ammonizioni (Am 14: FF 163), che commenta la beatitudine: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Francesco così la commenta: «Ci sono molti che, applicandosi insistentemente a preghiere e occupazioni, fanno molte astinenze e mortificazioni corporali [grandi penitenti!], ma per una sola parola che sembri ingiuria verso la loro persona [una cattiva parola!], o per qualche cosa che venga loro tolta [toglietegli l’immaginetta preferita!], scandalizzati, tosto si irritano. Questi non sono poveri in spirito».
È interessante che per commentare la beatitudine della povertà, Francesco porti questo esempio: la mala parola e il toglierti qualcosa, non importa cosa, ma che tu pensi sia tuo. Sono due esempi di relazione con gli altri. Per Francesco, come per Gesù, il vero banco di prova della povertà è la relazione con l’altro, con gli altri. È lì, nelle relazioni con gli altri, più che nei beni materiali, che ognuno può capire se è veramente povero o no.
Teniamolo presente, perché questa è un’indicazione importante per ognuno di noi. Un’indicazione che ognuno di noi può vivere. Molto spesso ci sentiamo tutti spiazzati di fronte alla nostra evidente non povertà di beni materiali. Di conseguenza ci sentiamo un po’ tagliati fuori da ogni discorso sulla povertà. Teniamo presente, allora, che per Francesco il vero banco di prova della povertà è la relazione con l’altro. E lì, nella relazione con l’altro, la possibilità di essere poveri ce l’abbiamo tutti, perché sempre ci capita la cattiva parola che ferisce e che ci tolgano quel qualcosa che pensavamo fosse nostro. È lì che si misura la nostra povertà.
Un altro tema importante di questo brano è il ricordare, il far memoria («memoriam agere»). Abbiamo visto che all’inizio, nell’introduzione (FF 466-467), l’autore, Tommaso da Celano, dopo aver ricordato che «il desiderio dominante», la volontà di Francesco era di «osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo» (FF 466), afferma che per questo «Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro» (FF 467).
Il biografo continua: «A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore nostro Gesù Cristo» (FF 468). La parola «memoria» è importante in questo racconto, che è il racconto di un far memoria della nascita di Gesù.
Ora, come abbiamo già visto, la volontà di far memoria della nascita di Gesù si concretizza immediatamente, in Francesco, nel desiderio, nella volontà di «rappresentare[1] il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello» (FF 468).
Questa volontà di «vedere con gli occhi del corpo» è un tratto tipico di Francesco. Francesco amava la concretezza. L’amore per la concretezza era un suo tratto tipico. Per questo Francesco vuole rivedere quasi fisicamente i disagi per la mancanza delle cose necessarie, come il Bambino fu adagiato in una greppia, come fu posto sul fieno… Questo suo amore per la concretezza si esprime spesso anche nel suo modo di predicare. Francesco amava predicare attraverso quelle che chiameremmo oggi delle sceneggiate, delle azioni drammatiche. Lo fa fin dall’inizio, con la spogliazione davanti al vescovo, quando resta nudo davanti a tutti. Non si limita a fare un discorsetto, compie anche dei gesti, che sono anche molto “eclatanti”. Dopo quel primo episodio, tante altre volte egli si esprime soprattutto attraverso gesti: Francesco amava questa concretezza. Anche il presepe di Greccio è una messa in scena del Natale.
Il far memoria è un sottrarre dalla dimenticanza, si contrappone alla dimenticanza. Ricordiamo quello che nella Scrittura vuol dire «far memoria»: al popolo d’Israele viene chiesto molto spesso di far memoria delle grandi cose che Dio ha fatto per lui: «Ricorda, Israele…». Questo tema emerge soprattutto alla fine del racconto, che termina con il racconto e l’interpretazione della visione, della «mirabile visione» avuta durante la Messa da uno dei presenti, «un uomo virtuoso»:
«Gli sembrava che un bambino giacesse privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicinasse e lo destasse da quella specie di sonno profondo. Né questa visione prodigiosa discordava dai fatti, poiché il fanciullo Gesù, che era stato dimenticato nel cuore di molti, per grazia di Lui, veniva risuscitato in costoro attraverso il suo santo servo Francesco, e il ricordo di Lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria» (FF 470)
A quell’uomo pare di vedere il Bambino Gesù «privo di vita nella mangiatoia» e Francesco avvicinarglisi e destarlo da quel sonno profondo, risuscitarlo.
Segue l’interpretazione che ne dà il biografo. Egli dice: «questa visione prodigiosa non discordava dai fatti», poiché è la rivelazione, la visualizzazione di quello che Gesù ha realizzato «attraverso il suo santo servo Francesco»: risuscitare «nel cuore di molti», in cui Egli giaceva dimenticato, quasi morto, e imprimere profondamente il suo ricordo nella loro memoria.
Questo rischio della dimenticanza, di abbandonare alla dimenticanza il Bambino Gesù è sempre attuale, oggi attualissimo. Il ritmo della nostra società, gli impegni che ci assillano c’impediscono di andare in profondità, ci fanno dimenticare Gesù, lo “fanno morire” nel nostro cuore. È necessario non lasciarci prendere da questa specie di oblio, di dimenticanza, ma fare in modo che Gesù sia sempre vivo nei nostri cuori e nella nostra memoria.
A questo rischio siamo esposti anche noi religiosi, non ne siamo esenti, nonostante la nostra scelta di vita.
Francesco aiuti tutti noi a non abbandonare mai Gesù alla dimenticanza, e aiuti tanti di noi a passare dalla dimenticanza alla memoria viva del Signore Gesù. Così sia!
L’Assistente spirituale, fra Franco Valente OFM
[1]La traduzione “vecchia” delle fonti francescane traduceva «voglio rappresentare». In realtà il testo latino dice «memoriam agere», cioè proprio «far memoria». Far memoria (anche per l’eco biblica che ha) è molto di più di «rappresentare».