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Il Vangelo Dell’incontro – Meditazione Per Il Tempo Di Avvento 2019 – Padre Giuseppe Dell’Orto OFM (Assistente OFS Regione Lombardia)
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La Visita di Maria ad Elisabetta

(Lc 1, 39-45)

 

 39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.

40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.

41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.

Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

 

Il centro del racconto lo troviamo nella persona di Gesù, anche se non dice nulla, non fa nulla, non è esplicitamente nominato. Maria, Elisabetta, Giovanni sono nominati e fanno qualcosa. Maria ed Elisabetta agiscono e parlano. Addirittura Zaccaria è nominato, poiché è la sua casa che accoglie Maria. Gesù è solo in parte nominato (benedetto il frutto del tuo seno, la Madre del mio Signore), ma di fatto è colui che suscita i diversi incontri (quello più evidente tra Maria ed Elisabetta, ma anche quello che ne consegue, tra Gesù e Giovanni), provoca i vari movimenti delle due donne e quello di Giovanni nel grembo, reca una gioia contagiosa, offrendo parole di lode e di benedizione in Elisabetta prima e in Maria poi attraverso il Magnificat!

Entriamo in questo “vangelo dell’incontro”, scopriamone i gesti significativi “che accorciano le distanze” per imparare a nostra volta ad incontrare Gesù Cristo e l’altro sull’esempio di Maria, di Elisabetta, di Giovanni… e di Gesù.

 

  1. Maria si alzò e andò in fretta

Notiamo immediatamente che Maria qui non parla, non pronunzia parole, non comunica con la voce: o perlomeno tutto questo non è descritto! Maria comunica con tutta se stessa, nella dinamicità del suo corpo (l’importanza dei gesti!), inizialmente “alzandosi” e “andando di fretta” da Elisabetta.

Maria “si alza” dopo aver vissuto l’incontro decisivo con l’angelo Gabriele e decide di non appartarsi e di non tenere per sé questo grande mistero, ma di condividerlo, preferendo aprirsi al prossimo.

Da subito, possiamo chiederci: Quando e quanto condividiamo i doni di Dio, le sue “visite”, la sua presenza nella nostra vita?

Non viene in sé descritto il motivo della sua visita ad Elisabetta, ma possiamo supporre almeno due motivi: il primo, per scoprire quel “segno” che l’angelo le aveva indicato, e che leggiamo al versetto 36 dello stesso capitolo: “Ed ecco, Elisabetta, tu parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile”… il secondo, più pratico, è per provvedere con spirito di servizio a Elisabetta, concretizzando così quell’atto di fede appena espresso, diventando modello del credente che aderisce a Dio, trovando spazio e slancio anche per il prossimo. È importante sapere e ricordarci che non basta credere!…

Luca sottolinea che il viaggio intrapreso da Maria è vissuto “in fretta”. La parola greca dice la fretta, ma anche la diligenza, la premura e persino l’entusiasmo: non ha nulla a che vedere con la fretta affannosa di Marta e con quella frenetica che spesso viviamo noi!

E può trattarsi di una nota qualitativa dell’animo, più che del tempo: la “fretta” di Maria è carica di premura e di attenzione verso l’altro, di desiderio di vivere la carità tanto proclamata poi nella vita del figlio… Ed è anche risposta allo Spirito, di cui Maria è ricolma. Sant’Ambrogio con un’espressione felice ricorda che “la grazia dello Spirito Santo non comporta lentezze”.

Di fatto Maria sta con Elisabetta tre mesi (cf. v. 56: “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua”) e possiamo immaginare come il suo prezioso gesto di carità sia stato distribuito nell’arco di questi novanta giorni!

Maria allora diventa per noi esempio di carità concreta, di spirito sensibile e di disponibilità.

  

  1. (Maria) entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta

 Entrata nella casa…

Nel desiderio dell’incontro è importante muoversi, andare, far il primo passo… e non fermarsi “sulla soglia”, timorosi o impauriti dalla presenza dell’altro, di sbagliare con le parole o con i gesti. C’è da “entrare” nella casa dell’altro per vivere l’incontro, per offrire la gioia sperimentata, per rendere concreta la carità, per condividere la fede!

Salutò Elisabetta

Maria porge il saluto per prima. In qualche modo l’iniziativa è dunque sua. Si tratta di un saluto importante, ricordato nella narrazione ben tre volte. È attorno a questo saluto che si sviluppano gli aspetti narrativi più importanti dell’episodio: il sussulto del bimbo, la venuta dello Spirito, il riconoscimento di Elisabetta.

Il saluto è l’inizio della comunicazione tra le persone. Non si inizia un incontro senza un saluto, col quale si dimostra che la situazione è aperta e le persone sono pronte ad accogliersi. Il saluto non è mai cosa banale. Ma qui il saluto di Maria – diversamente dal saluto/risposta di Elisabetta – è senza parole. Anche questo è un tratto da rispettare nel suo silenzio. Proprio perché senza parole, il saluto di Maria pone in primo piano la sua persona, non ciò che eventualmente Ella ha detto. In primo piano è la voce (1,44):  non le parole di Maria hanno fatto sussultare il bambino, ma la sua voce. È nella voce di Maria che il bambino percepisce la presenza del Messia atteso. Il silenzio sulle parole pone in primo piano la persona che saluta.

E’ proprio vero che spesso vale più il silenzio di molte parole… un silenzio che comunque suscita una reazione positiva, perché è un silenzio che sa ascoltare e che sa esprimere il suono dell’amore, dell’attenzione, dell’accoglienza! Le parole invece possono soffocare l’incontro e renderlo sterile, appesantito, infruttuoso.

L’incontro tra Maria ed Elisabetta è il centro della scena e al centro di questa scena c’è Gesù – come si diceva all’inizio – che “provoca” la reazione gioiosa degli altri…

Come bene descrive il biblista Bruno Maggioni “nell’ottica lucana il viaggio di Maria è anzitutto in funzione della manifestazione di Gesù: non a servizio di Elisabetta, nemmeno a servizio della fede di Maria, ma a servizio di Gesù”. Questo brano è prima di tutto cristologico, e ha lo scopo di fissare lo sguardo su Gesù. A prima vista, sembrerebbe una scena dominata dalle due donne che si incontrano e si parlano. Un supplemento di attenzione aiuterà a capire che il centro dell’interesse sta nei concepiti, che le due madri portano in grembo. La vera visita è quella di Gesù che, prima ancora di venire alla luce, è luce per Elisabetta e gioia per Giovanni, fa danzare di gioia il cugino e permette che Elisabetta sia colma di Spirito Santo, tale da esprimersi con un cantico stupendo che vedremo tra poco…

 

  1. Il bambino (Giovanni) sussultò nel suo (di Elisabetta) grembo

È un gesto e di conseguenza un incontro particolare quello che vive Giovanni nel grembo di Elisabetta. Non è ancora nato ma, se vogliamo, è quello che più sperimenta la vicinanza di Gesù, in quanto i due cugini sono in una situazione identica, all’interno del corpo delle rispettive madri!

Qui non ci sono parole, ma accade qualcosa, c’è un avvenimento che è più forte di ogni parola e che si manifesta in particolare attraverso il “sussulto”, ricordato due volte (vv. 41 e 44).

Il tratto comune quindi è il sussultare del bambino, che dunque assume un peso particolare. I due racconti non sono una pura ripetizione. Il primo racconta tre cose: il bambino che sussulta nel grembo materno, Elisabetta che viene riempita di Spirito Santo, Elisabetta che proclama a gran voce. Il secondo precisa che a far sobbalzare il bambino è stata la voce di Maria e che si trattò di un salto di gioia.

Il verbo σκιρτάω (saltare, sobbalzare, anche danzare) ricorre nel Nuovo Testamento soltanto tre volte, sempre in Luca (1,41.44; 6,23, all’interno delle beatitudini… Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti”). Nell’Antico Testamento può designare il movimento naturale dei bambini nel grembo materno (Gn 25,22), o anche l’esultanza del creato, degli animali e degli uomini per la venuta del Signore (MI 3,20). Nel nostro passo è certamente un salto di gioia per la venuta dei tempi messianici (1,44).

Per dire la gioia del bambino nel grembo della madre, Luca ricorre al vocabolo άγαλλίασις, (allegrezza) che «nell’uso linguistico biblico ed ecclesiastico esprime la gioia, che pervade tutto l’uomo, e che si manifesta anche all’esterno. E ha un significato religioso: la gioia e il giubilo per la salvezza promessa e donata da Dio mediante Gesù».

Elisabetta sente il bambino sobbalzare in grembo e – ripiena di Spirito Santo – comprende che si tratta di un gesto da leggere in ordine alla salvezza. Prima di nascere, il Battista già rinvia a Gesù. Giovanni, ancora nel grembo materno, riconosce che Maria porta nel suo grembo il Messia. Ed esprime questo riconoscimento con un sobbalzo di gioia. Maria è portatrice di santificazione (lo Spirito), ma prima ancora di gioia.

In che senso noi siamo “gioiosi” nei confronti di Gesù, nei confronti della nostra fede, nel sentirci cristiani? Sentiamo la presenza di Gesù come Salvatore, anche quando ci sentiamo “insultati e respinti” dalle esperienze della vita? Ci sentiamo “beati” (felici), poiché lasciamo agire Gesù in noi?

 

  1. Elisabetta esclamò a gran voce

Dopo il saluto di Maria, la scena – a prima vista – viene interamente occupata da Elisabetta: lei è salutata, avverte il movimento del bambino, è ripiena di Spirito Santo, proclama e racconta. Maria è completamente in silenzio, ma è sempre presente nelle parole di Elisabetta. Tuttavia la figura centrale è Maria, non  Elisabetta. È di lei, infatti, che si parla. Certo, in ultima analisi, la meraviglia di Elisabetta è per la venuta del Signore, ma il Signore è nascosto nel grembo di Maria e tutto è direttamente rivolto a Lei.

Le parole di Elisabetta rivolte a Maria non sono soltanto un saluto di risposta, ma una interpretazione di ciò che accade, riconoscimento e proclamazione.

«Esclamò a gran voce»: il verbo che esprime questo grido di Elisabetta – un grido che dice la sorpresa e la meraviglia – è άναφονέω . Si tratta di un verbo utilizzato per esprimere esclamazioni di tono liturgico (cf 1Cr 15,28; 16,4.5.42; 2Cr 5,13). È come se il saluto di Elisabetta si distendesse in una sorta di cantico. Una traccia di culto mariano già presente nella comunità di Luca? «Con voce forte» è una sigla che introduce la parola profetica, che sa svelare ciò che ancora è celato. E difatti Elisabetta non parla per forza propria, ma ispirata («ripiena di Spirito Santo»), come i profeti. Le sue parole non sono un augurio, come solitamente nei saluti, né una personale intuizione, ma una rivelazione di Dio, un’interpretazione autentica dell’evento che accade in Maria.

Tre i riconoscimenti: benedetta fra tutte le donne, madre del Signore, beata perché ha creduto. Il grido di Elisabetta non augura una benedizione, ma constata una benedizione già data. E non è Elisabetta che benedice Maria, ma Dio: ciò è chiaro nel «passivum divinum» (benedetta). «Tra le donne» è una forma comparativa: Maria è la più benedetta. Secondo molti esegeti, le parole di Elisabetta rivolte a Maria ricalcano le parole rivolte a Giuditta (13,18): «Tu sei benedetta fra tutte le donne e benedetto è il Signore Dio». La novità – e la grandezza – del Nuovo Testamento è tutta racchiusa nel cambiamento dell’espressione «il Signore Dio» nell’espressione «il frutto del tuo grembo». È in questo cambiamento che si capisce la grandezza di Maria.

Dicendo «la Madre del mio Signore», Elisabetta riconosce al tempo stesso l’identità di Maria (la Madre) e di Gesù (il mio Signore). Per la prima volta nel vangelo di Luca Gesù è chiamato «Signore» (κύριος). Con lo stesso titolo lo chiameranno poi gli angeli nell’annuncio ai pastori (2,11). È un titolo che appartiene alla fede della comunità post-pasquale. «Madre del mio Signore» è il titolo mariano più splendido che si legge nel Nuovo Testamento. Luca lo pone sulle labbra di Elisabetta, che in tal modo diviene la «prefigurazione» della comunità credente. Kύριος, è il Gesù risorto e glorioso, nella pienezza della sua sovranità.

II participio aoristo («Colei che ha creduto») e, soprattutto, il riferimento alle parole dette dal Signore dirigono l’attenzione verso le due annunciazioni, per un confronto tra Zaccaria e Maria. In ambedue i racconti viene posta all’angelo una domanda (1,18.34), ma la valutazione è completamente diversa: Zaccaria è rimproverato per la sua incredulità. Maria è Iodata per la sua fede. Dove sta la differenza fra le due domande?

Di fronte alla promessa di un figlio, Zaccaria resta incredulo e chiede un segno, una garanzia («in forza di che cosa posso conoscere questo?»). La risposta dell’angelo («Ecco, sarai muto e non parlerai più fino al giorno in cui queste cose avverranno») è al tempo stesso un segno dell’efficacia della parola di Dio e un castigo per la poca fede dell’uomo. Maria, invece, non chiede un segno (e per questo un segno le sarà dato). Già crede alla promessa dell’angelo, ma si interroga sul «come», dal momento che la promessa divina pare contraddire il suo proposito di «non conoscere uomo». Maria non si interroga sulla potenza di Dio, ma si chiede quale sia la sua volontà.

 

Elisabetta riconosce Maria dapprima come Madre (1,44) e poi come credente (1,45). II primo riconoscimento riguarda soltanto Maria; è infatti interamente espresso alla seconda persona singolare. Il secondo, invece, è detto alla terza persona: «Colei che ha creduto». In tal modo l’espressione si dilata su un orizzonte più ampio. La maternità appartiene solo a Maria, invece nel suo atteggiamento di credente c’è posto anche per altri. Maria assume la figura del discepolo. Per la sua fede è il modello di tutti coloro che «ascoltano la Parola e la osservano» (11,27-28; cf 8,21).

 

  1. Elisabetta fu colmata (da Dio) di Spirito Santo

 Nel racconto della visitazione lo Spirito è nominato una sola volta: «Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo». Tuttavia è un protagonista. È in forza dello Spirito che Giovanni inizia – tramite la madre – la sua funzione di profeta e di precursore. Ed è perché è ripiena di Spirito Santo che Elisabetta comprende e annuncia. Così la testimonianza del Battista avviene ancor prima di nascere. Questa anticipazione – resa possibile dallo Spirito – dice che la testimonianza viene da Dio, non dagli uomini. Le manifestazioni visibili passano attraverso gli uomini, le loro parole e le loro azioni, ma il protagonista vero, invisibile, è lo Spirito.

Lo Spirito Santo, che discende su Elisabetta e Giovanni, è attore di un compimento. La promessa (1,15) è comunicata dall’angelo («sarà pieno di Spirito Santo sin dal seno materno»), ma il compimento è opera dello Spirito (1,41). Il fatto che Giovanni riconosca Gesù con un balzo di gioia è il segno che lo Spirito è disceso su di lui, non soltanto sulla madre. Se Elisabetta appare sulla scena in primo piano, è solo perché è il soggetto visibile e attivo, ma “guidata” dallo Spirito.

 

E noi, invochiamo lo Spirito Santo, affinché sia lui a condurre i nostri passi, a suggerirci le parole e le azioni giuste, a colmarci della vera gioia, a compiere la volontà di Dio nella nostra vita?

 

Santa Maria Vergine, non vi è alcuna simile a te, nata nel mondo, fra le donne, figlia e ancella dell’altissimo Re, il Padre celeste, madre del santissimo Signore nostro Gesù Cristo, sposa dello Spirito Santo; prega per noi con san Michele arcangelo e con tutte le virtù dei cieli, e con tutti i santi, presso il tuo santissimo Figlio diletto, nostro Signore e Maestro.

Guardiamo infine anche all’esempio del Serafico Padre Francesco che ha vissuto alcuni tratti visti in Maria e in Elisabetta, fin dagli inizi della sua “conversione”…

Era già del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo, quando, un giorno, passò accanto alla chiesa di San Damiano, quasi in rovina e abbandonata da tutti. Condotto dallo Spirito, entra a pregare, si prostra supplice e devoto davanti al Crocifisso e, toccato in modo straordinario dalla grazia divina, si ritrova totalmente cambiato. Mentre egli è così profondamente commosso, all’improvviso – cosa da sempre inaudita! –l’immagine di Cristo crocifisso, dal dipinto gli parla, movendo le labbra, “Francesco, – gli dice chiamandolo per nome – va’, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”. Francesco è tremante e pieno di stupore, e quasi perde i sensi a queste parole. Ma subito si dispone ad obbedire e si concentra tutto su questo invito. Ma, a dir vero, poiché neppure lui riuscì mai ad esprimere la ineffabile trasformazione che percepì in se stesso, conviene anche a noi coprirla con un velo di silenzio.

Da quel momento si fissò nella sua anima santa la compassione del Crocifisso e, come si può piamente ritenere, le venerande stimmate della Passione, quantunque non ancora nella carne, gli si impressero profondamente nel cuore.

[…]

Intanto si prese cura di quella immagine, e si accinse, con ogni diligenza, ad eseguirne il comando. Subito offrì denaro ad un sacerdote, perché provvedesse una lampada e l’olio, e la sacra immagine non rimanesse priva, neppure per un istante, dell’onore, doveroso, di un lume. Poi, si dedicò con impegno al resto, lavorando con intenso zelo a riparare la chiesa. Perché, quantunque il comando del Signore si riferisse alla Chiesa acquistata da Cristo col proprio sangue, non volle di colpo giungere alla perfezione dell’opera, ma passare a grado a grado dalla carne allo spirito. [FF 593 e 595]

Il Signore Vi dia Pace!

Monza (MB) 01 dicembre 2019.

padre Giuseppe dell’Orto – Provincia S. Antonio Frati Minori Nord Italia

Assistente OFS Regione Lombardia

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